L’esame della rassegna delle pronunce delle Sezioni Unite civili in materia disciplinare nell’anno appena trascorso consente di cogliere, in primo luogo, il consolidarsi di alcuni orientamenti giurisprudenziali formatisi in ordine alle più ricorrenti fattispecie di illecito disciplinare (vale a dire i ritardi nei deposito dei provvedimenti e le tardive scarcerazioni per scadenza dei termini massimi di misura cautelare).
Riguardo ai ritardi, viene ribadito dalla Suprema Corte che, rappresentando l’ingiustificatezza degli stessi un elemento esterno alla fattispecie tipica di cui all’art. 2 lett. q) d. lgs. 109/2006 – e dunque una causa di esclusione dell’antigiuridicità della condotta riconducibile alla categoria della inesigibilità – le circostanze di giustificazione devono essere specificamente accertate ove addotte dall’incolpato o comunque emergenti; esse, in caso di un numero elevato di ritardi ultrannuali, devono presentare caratteri di spiccata pregnanza ed essere proporzionati alla gravità della condotta contestata, non essendo di per sé sufficienti condizioni lavorative gravose e/o l’esistenza di una situazione d’ufficio strutturalmente disorganizzata.
Le pronunce in materia di tardive scarcerazioni ribadiscono, richiamando i principi costituzionali in tema di libertà personale, che l’illecito del danno ingiusto (art. 2, comma 1, lett. a) d. lgs. 109/2006) non viene meno allorquando l’imputato, trattenuto illegittimamente in stato di custodia cautelare oltre i limiti temporali previsti dalla legge, sia successivamente condannato ad una pena detentiva di durata superiore alla misura preventiva sofferta; inoltre si afferma che la successiva condanna dell’imputato non rileva in sede disciplinare neppure ai sensi dell’applicazione dell’art. 3-bis (clausola della scarsa rilevanza); ancora, che il danno si determina nel momento (e per tutto il tempo) in cui vengono superati i limiti massimi di legge della custodia cautelare e non si elimina per il solo fatto (comunque incerto sia nel “an” che nel “quando“) del passaggio in giudicato della sentenza di condanna; che la grave violazione di legge (art. 2 lett. g), del d.lgs. n. 109/2006) può escludersi solo in presenza di impedimenti gravissimi, che abbiano precluso al magistrato di assolvere i suoi doveri, a nulla rilevando la laboriosità o la capacità del magistrato incolpato, né particolari condizioni lavorative gravose e/o strutturalmente disorganizzate dell’ufficio di appartenenza.
In una decisione in materia di inerzia investigativa del pubblico ministero in un caso in cui il ritardo nelle indagini era all’origine dell’estinzione dei reati per prescrizione (illecito di cui all’art. 2 lett. a) d. lgs. 109/2006), la Suprema Corte ha ritenuto esente da censure la motivazione adottata dalla Sezione disciplinare del C.S.M., laddove questa aveva affermato che il danno ingiusto per la parte civile è derivato dal non aver potuto ottenere il risarcimento in sede penale, vedendosi costretta ad intraprendere il percorso dell’azione in sede civile – il che, sommandosi al tempo già vanamente trascorso nelle more del procedimento penale, dilata l’orizzonte temporale in cui si collocherà la pronuncia sulla domanda risarcitoria -, e che l’indebito vantaggio per gli imputati è consistito nel proscioglimento per intervenuta prescrizione.
Meritano di essere segnalate per la novità delle fattispecie affrontate alcune interessanti sentenze su incolpazioni di particolare attualità, come l’uso di espressioni ritenute violative dei doveri del magistrato nei contesti telematici (blog o facebook), sussunte nelle fattispecie dell’illecito derivante da reato (art. 4 lett. d) d. lgs. 109/2006) o nella grave scorrettezza (art. 2 lett. d.)
La Suprema Corte ha rilevato che le espressioni sconvenienti rivolte “in incertam personam”, in occasione dell’intervento di un magistrato ad un forum di discussione su un blog internet attinente ai temi della giustizia, non integrano l’illecito di cui all’art. 2, comma 1, lett. d), del d.lgs. n. 109 del 2006, “il quale postula che la condotta disciplinarmente rilevante sia posta in essere nell’esercizio delle funzioni, atteso che la manifestazione del pensiero di un magistrato costituisce espressione di una libertà costituzionale che rimane tale, e non diventa esercizio di funzione giurisdizionale, anche allorquando abbia ad oggetto opinioni relative a temi inerenti l’organizzazione di un ufficio giudiziario ed il suo funzionamento, e sempre che non si espliciti attraverso riferimenti individualizzati (nel qual caso, ricorrendo la natura ingiuriosa delle espressioni utilizzate, potrebbe configurarsi il delitto di cui all’art. 595 c.p.c. e l’illecito di cui all’art. 4, lettera d), del d.lgs. n. 109 del 2006). Ha inoltre precisato che laddove le espressioni sconvenienti siano invece rivolte “in incertam personam” – come nel caso esaminato – non integrano neppure l’illecito disciplinare derivante da reato, proprio in ragione dell’inesistenza di un destinatario identificato o identificabile.
In un’altra fattispecie in cui l’incolpazione ha riguardato l’uso di espressioni offensive ai danni di persona determinata rese da un magistrato su facebook (illecito disciplinare costituente il reato di diffamazione: art. 4 lett. d) d. lgs. 109/2006), è stato affermato il principio secondo cui ai fini della sussistenza del reato di diffamazione ciò che rileva è l’uso di parole socialmente interpretabili come offensive e che ai fini dell’applicazione dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto – ex art. 3-bis del d.lgs. n. 109/2006 -, non assume alcun rilievo la mancata percezione dell’offesa da parte della vittima del reato, posto che il bene giuridico protetto attraverso la previsione di detto illecito è costituito dall’immagine del magistrato.
Interessanti, ancora, le pronunce emesse in tema di liquidazioni dei compensi ai consulenti tecnici in casi di accertato superamento dei limiti massimi previsti oppure disposte in misura non conforme alla normativa vigente: le Sezioni Unite avvertono che ai fini della sussistenza dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 109/2006 è del tutto irrilevante la circostanza che nessuna delle parti abbia impugnato i provvedimenti di liquidazione, richiedendo la norma suddetta il danno ingiusto come elemento obbiettivo, e non come percepito dalla parte.
Infine, vale la pena di menzionare una pronuncia resa in una fattispecie di divulgazione di atti di indagine: le Sezioni Unite hanno affermato che: 1. rientra nella previsione dell’illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma 1, lettera u), d.lgs. n. 109/2006, la condotta del magistrato del pubblico ministero che, nell’ambito di un procedimento penale per reati contro la Pubblica Amministrazione, violando il dovere di riserbo, riveli al difensore di alcuni indagati circostanze relative allo sviluppo dell’indagine, trattandosi di condotta potenzialmente idonea a ledere i diritti delle altre persone coinvolte nel suddetto procedimento e l’immagine dei partiti politici di appartenenza; 2. che non costituisce illecito disciplinare la rassicurazione, fatta dal pubblico ministero all’avvocato difensore di alcuni indagati, che l’indagine verrà chiusa dall’organo inquirente in breve tempo: essa non integra divulgazione preferenziale di una strategia investigativa dell’Ufficio, ma “conferma dell’osservanza del dovere funzionale del pubblico ministero di svolgere e di concludere in un tempo ragionevole le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”; 3. che l’illecito della grave scorrettezza (art. 2 lett. d) d.lgs. n. 109/2006), contenendo una norma elastica, impone al giudice disciplinare una valutazione in ordine alla gravità: di talché anche l’anticipazione – data da un P.M. al difensore di una parte privata – circa il prevedibile rigetto di un’istanza presentata dal legale, a causa dell’orientamento dei colleghi del suo ufficio, pur costituendo comportamento scorretto nei loro confronti, non si sottrae alla necessità di tale valutazione.
Paola Mastroberardino